IL GIRO DELLE 13 CIME
by Giacomo Meneghello
Traversare le 13 cime del Passo Gavia era un’idea che avevo in mente fin dal primo giorno in cui decisi di vivere in Valtellina. Una valle che per me era come il far west, uno di quei posti dove non mi stancavo mai di tornare e dove subito venni attratto da quell’infilata di cime, tredici, che cingono la valle che sale al passo Gavia dalla Valfurva. 11 sul lato est, 2 sul lato ovest. Vette iconiche, famose per le vie alpinistiche che ne solcano i versanti e per le traversate invernali, sci ai piedi.
Quello che mi mancava, ma che avrei presto trovato, era il compagno giusto con cui intraprendere un progetto così ambizioso. Parliamo di 3650 metri di dislivello positivo per uno sviluppo di 32 chilometri seguendo un tracciato tutt’altro che escursionistico. Chi poteva appassionarsi a questo progetto se non il campione di scialpinismo Robert Antonioli? Conosce queste montagne come le sue tasche. Sono la sua casa, quelle su cui si allena tutto l’anno, su cui scappa alla ricerca della serenità. Le stesse che l’hanno visto crescere, anno dopo anno, senza mai perdere quella passione selvaggia che ancora traspare guardando i suoi occhi illuminarsi al ricordo di un’avventura tra i monti con il cuore al mille e la gambe brucianti di fatica. La decisione era presto presa, senza troppi giri di parole. Andiamo? Andiamo!
Era ancora buio quando ci siamo lasciati il rifugio Berni alle nostre spalle. Una leggera brezza tagliava l’aria e le frontali illuminavano la strada verso il Tresero, la prima delle nostre vette. La strada per raggiungerla era ancora molta e noi eravamo solo all’inizio del nostro viaggio, della nostra avventura. Il passo era buono mentre risalivamo il sentiero che porta al bivacco Seveso, da cui attacca la cresta sud. Un itinerario esposto, non molto difficile ma con passaggi che al buio richiedono particolare attenzione. Muovendoci con calma, prestando attenzione a dove mettevamo i piedi, in breve siamo in cima. La prima vetta!
Foto di rito sotto la croce e poco dopo siamo ripartiti. Tutt’attorno a noi un’atmosfera mistica, con una leggera nebbiolina che inondava la valle. In un attimo poi, rieccoci nuovamente in cima, questa volta sulla Punta Pedranzini che abbiamo passato velocemente per proseguire spediti verso il Monte Dosegù. Tra una chiacchiera e l’altra il cielo si è infuocato di una luce che valeva tutta la nostra avventura. Senza pensarci ci siamo fermati e la fotocamera ha iniziato a scattare mentre Robert, semplicemente, si godeva il momento. Pochi minuti di pausa in un viaggio che stava decisamente prendendo la giusta piega.
La prossima meta era il San Matteo, il punto più alto del nostro viaggio a 3678 metri di quota. Forse anche uno dei passaggi più delicati dell’intero itinerario. L’estate torrida aveva messo a dura prova il ghiacciaio che si estende lungo i fianchi della montagna e la cresta nord-ovest, che in anni buoni risulta molto facile, quel giorno si presentava come una spalla di ghiaccio dove era necessario muoversi con la giusta attenzione. Anche il canalino che di solito permette un facile accesso dal ghiacciaio alla cresta era ghiacciato e a rischio di scariche. L’unica soluzione sicura era quella di fare una variante con cui bypassare il problema e muoverci in sicurezza. Così, muovendoci su una roccia tutt’altro che solida, abbiamo raggiunto la vetta. Ora avevamo anche la quarta cima in tasca, ed erano passate solo tre ore e mezza dalla nostra partenza.
In cima ci siamo concessi una piccola pausa ristoratrice così, dopo aver mandato giù una barretta, ho preso la camera e ho iniziato a scattare perdendomi per qualche minuto tra il paesaggio.
“Che spettacolo essere qui, Robert”. Robert? Nessuna risposta. Mi sono voltato e, lui non c’era più. Chi non lo conosce penserà che sia già ripartito in preda a trance agonistica, invece si era fiondato sulla calotta glaciale a cercare reperti di guerra che quell'anno affioravano come non mai a causa del ritiro del ghiacciaio. Ma non sempre la fortuna aiuta gli audaci e così, dopo una ventina di minuti, ho visto il mio compagno d’avventura tornare con le mani vuote.
“Niente cimeli oggi” e siamo ripartiti. Scendiamo per la cresta sud poi, una dopo l’altra, tocchiamo Cima Mantello, Cima Villacorna e Cima Vallombrina con il suo bivacco. Quindi passo Dosegu e Cima Sforzellina.
Digradando rapidi dalla cima abbiamo raggiunto il passo Sforzellina, che si trova alcune centinaia di metri oltre la bocchetta dove ora passa il sentiero attrezzato che unisce il passo Gavia con la valle che scende verso il Trentino. Qui comincia la cresta nord del Corno Tre Signori, anche se non esiste un vero e proprio percorso obbligato. Per questo abbiamo deciso di continuare a seguire il nostro istinto rimanendo circa sulla linea di cresta, superando passaggi di secondo grado e alcuni tratti di terzo su cui Robert filava via rapido come un vero camoscio. Io, attento, cercavo di imitarne i passi sicuri, lasciando a lui l’arduo onere di verificare la solidità di ogni appoggio.
Sono passate otto ore e un quarto quando finalmente abbiamo messo piede in cima al Corno Tre Signori, a 3360 metri di quota. Devo ammettere che qui la fatica ha iniziato a farsi sentire, ma ogni dolore è stato facilmente dimenticato quando ho preso in mano la macchina fotografica iniziando a scattare per immortalare un panorama troppo bello per lasciarselo sfuggire.
“Passiamo di qui, facciamo più in fretta”. E così mi sono ritrovato a disarrampicare tra scaglie di roccia che offrivano sì dei buoni ancoraggi, ma anche una certa verticalità. Un tratto che in breve (per fortuna) ci ha consegnato al sentiero della via normale del Corno Tre Signori e quindi alla bocchetta dei camosci. Con le gambe ormai stanche ho iniziato a seguire il passo leggero di Robert che con una facilità inaudita si è arrampicato fino a raggiungere la cima della Torre dei Camosci. Un dente di roccia che si innalza nel cielo per alcune decine di metri come a volerlo bucare. Robert sorrideva in cima, era nel suo ambiente.
Con un po’ di attenzione ci siamo infilati in un canale che parte sotto la cima e che, tra ghiaioni e terriccio scivolosi, ci ha permesso di perdere rapidamente quota fino a raggiungere i laghetti che si trovano alla base della montagna. Il caldo e la siccità li avevano ridotti a piccole pozze circondate da fango simile a sabbie mobili, bisognava fare attenzione ad avvicinarsi. Poco male, non avremmo comunque avuto tempo per bagnarci i piedi.
L’undicesima cima ci attendeva: il monte Gaviola. Quella del Gaviola è l’ultima cima sul lato meridionale del passo e da qui avremmo presto raggiunto il rifugio Bonetta, alcune centinaia di metri sotto di noi. Giusto in tempo, prima che ci prendesse una crisi di fame. In fondo eravamo in giro da quasi dieci ore e quando l’abbiamo raccontato ai gestori del rifugio siamo stati costretti a farci offrire il pranzo e la prima birra della giornata.
Tra la stanchezza e l’ottimo cibo alla fine abbiamo perso oltre un’ora a gozzovigliare al rifugio. Poi, quasi controvoglia, ci siamo rimessi in marcia. Puntavamo al monte Gavia, prima seguendo il vecchio e comodo tracciato militare, poi su roccette fino al dente finale che abbiamo raggiunto superando alcuni passaggi di secondo grado.
La nostra dodicesima cima ci ha accolto con un cielo carico di pioggia. Nuvole grigie si affacciavano all’orizzonte, bisognava affrettarsi.
Un’infinita linea attraverso la pietraia ci fa soffrire a ogni passo, fino a raggiungere la base della salita per la bocchetta che divide il passo Gavia dalla val di Rezzalo. E ancora non era finita, anzi.
Se già la pietraia ci aveva fatto soffrire, affrontare dei traversi instabili con la stanchezza delle molte ore di attività diventa ancora più insopportabile. Poco oltre l’incubo è continuato attraverso un canalino friabile, dove bisognava rimanere sempre concentrati e ponderare ogni passo. Intanto, sul fondovalle, guardavamo con gli occhi innamorati i prati verdi baciati dal sole. Un miraggio lontano, che non vedevamo l’ora di raggiungere.
Finalmente poi ecco il prato morbido sotto ai nostri piedi. Un sollievo inaspettato, a cui segue una nuova facile salita che infine ci ha portati alla bocchetta. Davanti a noi rimaneva l’ultima cima, l’unica del percorso a non toccare i tremila metri, la cima Gavia che si ferma a 2987 metri. Uno dei momenti più leggeri dell’intera giornata, forse perché era l’ultima cima, forse per la semplicità di quest’ultimo tratto. Forse, per la soddisfazione di aver portato a termine questa cavalcata attraverso le tredici cime del Gavia.
Un periplo che abbiamo ammirato a lungo buttati a terra, schiena contro schiena, pervasi da una stanchezza carica di leggerezza. Ma non abbiamo potuto perdere troppo tempo, stava per arrivare il temporale. Ancora una volta siamo ripartiti, veloci verso valle. Robert a una velocità impressionante, che quasi sembrava avesse gli sci ai piedi. In un lampo abbiamo così raggiunto il rifugio Berni, il nostro punto di partenza.
Siamo stati in giro poco più di 13 ore, ma ora ora possiamo finalmente abbracciarci felici. L’avremmo fatto in cima se non fossimo dovuti ripartire incalzati dal maltempo. Un giro incredibile, che mi ha lasciato sorridente per giorni a ricordare le emozioni di quel continuo saliscendi, di tutte quelle vette raggiunte in una manciata di ore lungo un itinerario che sembra pensato per chi ama la montagna nella sua semplicità.
IL PERCORSO
32 km, 3650D+
Rif Berni (m 2540) – Tresero (m 3594) – Pedranzini (m 3599) – Dosegù (m 3560) – San Matteo (m 3678) – Mantello (m 3518) – Villacorna (m 3447) – Vallombrina (m 3220) – Bivacco Battaglione Monte Ortles (m 3120) – Passo Dosegù (m 2990) – Sforzellina (m 3099) – Corno Tre Signori (m 3360) – Torre dei Camosci (m 3110) – Gaviola (3022) – Passo Gavia / Rifugio Bonetta (m 2621) – Monte Gavia (m 3220) – Cima Gavia (m 2987) – Rif Berni (m 2540).