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SILENZI CHE PARLANO

PATAGONIA - SILENZI CHE PARLANO

by Chiara Gusmeroli

Giovane alpinista valtellinese, Chiara Gusmeroli ha imparato a vivere la montagna in maniera istintiva. II granito del gruppo Masino-Bregaglia è la sua seconda casa e I’amore sconfinato per le montagne svizzere le ha fatto conoscere l’alpinismo in ogni sua forma.


Chiara è un’alpinista completa: la sua propensione all’endurance ed alla fatica, completate da un buon livello tecnico, le consentono di muoversi su qualsiasi montagna e in qualsiasi condizione. Con gli sci ai piedi, le piccozze in mano o semplicemente con le scarpette e la magnesite sui polpastrelli. Ogni momento libero dal lavoro è ovviamente dedicato alla sua passione.


Nel gennaio 2024 Chiara ha intrapreso un viaggio verso le torri di granito tipiche della Patagonia, il sogno di ogni alpinista. Ha poi completato la salita al Fitz Roy lungo la via Afanasieff, salendo in due giorni i 1600 metri dello spigolo ovest: una via simbolica aperta da Jean, Michel Afanassieff e compagni nel 1979. Ancor oggi,  una dura prova di intuito, resistenza e difficoltà.


In questo "dietro le quinte" della salita, I’alpinista lombarda racconta aspetti che spesso rimangono taciuti, dalla vita in paese alle sensazioni vissute in prima persona durante le giornate del tentativo, con la presenza, costante ma invisibile, del silenzio.

SILENZIO

Era calato il silenzio laddove, la mattina ed i giorni precedenti c’era vociare, risate, tintinnio di ferraglia. 
Nel giro di poche ore tutto si era azzittito, svuotato.  Niente sacchi a pelo colorati ribaltati al vento sulle staccionate, niente scarponi impolverati sui gradini, niente porte aperte. Gli zaini erano stati riempiti, le cordate compattate ed ognuno aveva preso la sua strada, portandosi via quel misto di entusiasmo e tensione che da giorni impregnava l’aria a El Chalten.


 Al Lo De Trivi (l’ostello di El Chalten) restavo io, a guardare il cielo grigio mentre rileggevo il maniacale elenco stilato: materiale personale, in comune, già nel mio zaino, da mettere nello zaino di Matteo De Zaiacomo, il mio compagno di viaggio. Io e “Giga”, come lo chiamano gli amici, saremmo partiti solo il giorno seguente, non per scelta ma per necessità: il suo volo sarebbe atterrato nel pomeriggio e lui sarebbe arrivato a El Chalten per le 18. 
Restavano una manciata di ore di tranquillità, un paio di decisioni sul setup da prendere e le braccia al collo, da buttare agli amici ancora in paese. 

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SILENZIO

Il materiale depositato a terra sulla neve compatta non emette più alcun suono, il vento non soffia e gli unici esseri viventi lì siamo noi, zitti. L’entusiasmo scanzonato con il quale abbiamo esultato poco prima, sulla cima, è scemato ed io, ancora incredula, mi godo quella vista a 360 gradi che la vetta del Fitz Roy regala.
Un dono che riempie e svuota allo stesso tempo, ferma l’attimo, ti incatena lì: in piedi su un sasso, mentre gli ultimi raggi di sole ti scaldano il viso e tingono il granito di giallo, arancio e poi oro, ed il cielo di rosso, rosa e violetto. 


Sono le 21.22. Sono trascorse due giornate intense da quando abbiamo lasciato il paese: occhi e mani ne sono allo stesso tempo testimoni e vittime; ma la testa dice che non è ancora ora di allentare la tensione, il giorno seguente ci aspetta la discesa dal versante opposto di salita, con condizioni meteo poco certe. 
Mangiare, bere e riposare il più possibile diventano l’obiettivo principale.

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SILENZIO

Sono seduta sulla riva erbosa, con lo sguardo perso sul Rio De Las Vueltas, al riparo dal vento che nelle vie di El Chalten soffia feroce la sabbia in faccia ai passanti. I pensieri corrono veloci come il fiume che mi fa compagnia. 
Sono oramai trascorsi cinque giorni ma i ricordi restano vividi, le immagini ben impresse nella mente: attimi, frasi, musica, tutto risuona. Frammenti di un puzzle affascinante e scomposto, dettagli che fatico a rielaborare, attimi eterni di giornate.


Come quando siamo sbucati al Paso del Cuadrado e per la prima volta ho visto nella sua interezza l’Afanasieff, l’immensa cresta che ci ha portati sulla cima del Fitz Roy, ed il Cerro Torre. 


Come quando, sotto la Supercanaleta, sono rimasta talmente di stucco che mentre Matteo era pronto con i ramponi ai piedi io ero lì, ferma, immobile, a guardare all’insù incredula.


Come le lunghezze del primo giorno, scalate con la brama di mettere le mani sulla roccia dopo le otto ore di avvicinamento. Lunghezze quasi corse, con l’incognita del “chissà a che ora arriviamo alla piazzola da bivacco”, che gli amici ci avevano consigliato per la prima notte.


E poi ancora l’alba del secondo giorno, il Cerro Piergiorgio alle spalle color pastello, il tè bollente e le mani calde sopra al jetboil che iniziammo a rimpiangere poco dopo, quando le placche fessurate piene di ghiaccio non ci diedero esattamente il buongiorno sperato.


I cambi d’assetto, da scarpette a scarponi e ramponi, e lo zaino pesante sulle spalle che rendeva goffi i movimenti e precari gli equilibri; la forza di gravità che, inaspettatamente, funziona pure dall’altra parte del mondo.


Gli immensi silenzi tra contemplazione, inerzia dei movimenti, gratitudine e sfinitezza che hanno avvolto le ultime lunghezze, incrostate dai funghi di neve lavorati dal vento.


E poi ancora il tramonto, la notte e l’alba sulla cima, la discesa infinita: le calate prima lungo la via Franco Argentina e poi dalla Breccia degli Italiani, il ghiacciaio con il sole cocente e il rientro impregnato di crema solare e scarponi zuppi.

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SILENZIO: QUESTA VOLTA DA ROMPERE

Un silenzio da rompere per ringraziare chi ha fatto parte e mi ha permesso tutto ciò. 
Al Fitz Roy, alla Patagonia, a Matteo.
Ai compagni di questo viaggio, alle belle persone che ho conosciuto, persone che mi hanno aiutato, consigliato, insegnato, aspettato, persone con le quali ho condiviso caffè, acqua dei torrenti, birra e vino tinto.
A chi, nonostante sia rimasto a casa, ho sempre sentito più vicino che mai.
Agli amici di una vita che, negli anni mi hanno insegnato come si va in montagna, come si sta in montagna; nella delicata e continua ricerca di equilibrio, tra gli spigoli da smussare e quelli da scalare. 
Infine, un grazie al vento che, nonostante il suo soffiare, non è riuscito a portarmi via nulla: ho tutto qui, stampato addosso.


CHIARA GUSMEROLI

LE NOSTRE STORIE DI ALPINISMO

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