ODYSSEA BOREALIS
by Silvan Schupbach
Nel luglio 2024, lo svizzero Silvan Schüpbach parte per l'esplorazione della costa Est della Groenlandia assieme ad altri tre alpinisti dell'elite mondiale. Obiettivo: aprire una nuova via sull'inviolato big wall del Droneren. La meteo avversa e alcuni incontri ravvicinati spingono subito l'avventura oltre i confini della spedizione alpinistica, caratterizzando una trama degna dei poemi omerici.
IL TEAM: NESSUN "ULISSE"
Il senso di un'avventura in un territorio sconosciuto sta nel come, non nel cosa. Nel corso degli anni ho imparato a convivere con l'alto rischio di fallimento che comporta la ricerca della novità, nutrendo le mie ambizioni con la seduzione dell'ignoto. La spedizione alla volta del Mythics Cirque , conclusasi con l'apertura di "Forum" sulla Siren Tower, aveva scolpito nella mia mente la convinzione che "il valore della meta raggunta risiede nel viaggio compiuto per raggiungerla", parafrasando Kavafis. Questo nuovo viaggio ha rafforzato la mia convinzione, facendo assumere al passaggio della poesia "Itaca" un significato letterale.
Meta finale di questo nuovo viaggio è l'inviolato Droneren, un'imponente torre rocciosa alta quasi 2000 metri che sbuca tra i fiordi orientali dell'isola più grande al mondo. Una zona ostica per condizioni e avvicinamento, basti pensare che il villaggio più vicino dista ben 380 km. Per raggiungere la torre, pensiamo di pagaiare in kayak per oltre 300 km., per un totale di 600 km. tra andata e ritorno. Ad aggiungere un ulteriore livello di sfida, il fallimento della spedizione intrapresa dall'esploratore americano Mike Libecki nel 2017. Oltrepassare il confine del mondo conosciuto, spingendosi laddove altri avevano fallito: era proprio quello che cercavamo!
Dal 2019 progettavo un tentativo con il mio socio Matteo della Bordella, ma la pandemia prima e altri progetti verticali poi avevano spostato il mirino da questo sogno. Dato che i presupposti si sono finalmente creati, io e Matteo decidiamo di coinvolgere subito Symon Welfringer, con cui abbiamo formato un gruppo molto affiatato nell'apertura della via sulla Siren. Assieme a lui includiamo nel team anche la guida e grande amico Alex Gammeter, che con la sua esperienza ci permetterà di agire sempre in sicurezza. Per oltre un mese, possiamo contare solamente sull'unione del gruppo. Non ci sono "Ulisse", siamo tutti sullo stesso piano. Sappiamo che la mancanza di leadership potrebbe allunagre i tempi di ogni decisione (persino quelli su dove fermarsi per fare pipì) e creare qualche discussione, ma solo così possiamo essere sicuri di prendere la miglior decisione possibile. Oltre al "chi", salire in cima al Droneren è soprattutto una questione di "come". Oltre alla completa autonomia, infatti, condividiamo tutti l'esplorazione "by fair means", uno stile di arrampicata pulito da tutti i punti di vista.
La grande quantità di ghiaccio accumulatasi nell'Atlantico (secondo gli esperti, un ice pack così non si vedeva da almeno 20 anni) ci costringe a rimandare la partenza in kayak di una settimana. Mi viene da sorridere se ripenso a quando, confrontando la nuova avventura con le spedizioni himalayane, dicevo a tutti che non avremmo dovuto aspettare molto tempo per dare inizio alel danze. Nonostante questa "falsa partenza" siamo però gasatissimi come bambini. Il viaggio verso l'obiettivo di un'intera stagione alpinistica ha finalmente inizio!
L'IRA DI POSEIDONE
La "Red house" di Tasillaq è il nostro campo base nei primi dei trentacinque giorni totali di spedizione. Approfittando (ancora una volta) dell'ospitalità del gestore Robert Peroni, impacchettiamo nei bidoni cibo, abbigliamento e attrezzatura (ben 80 kg. ciascuno), riscaldando gli avambracci con le immancabii partite a carte della sera. All'interno di quella struttura rossa si respira sempre un'aria di magia. Riusciamo a riordinare le idee, ripassare il piano e sentire per un'ultima volta la piacevole sensazione del calore naturale che percorre la schiena. La quiete prima della tempesta. Nel frattempo, l'effetto del Piteraq, la bufera di vento che aveva spezzato gli accumuli di ghiaccio, rendendo l'acqua navigabile, era ormai terminato. Decidiamo quindi di noleggiare una barca a motore per raggiungere Isortoq, il nostro ultimo contatto con il mondo conosciuto. Oltre quel centro abitato, nessuna connessione internet per oltre un mese. Solamente noi, le infinite piramidi di ghiaccio, e i satellitari in caso di necessità.
Lasciata la civiltà alle nostre spalle, è finalmente giunta l'ora di salpare. Il primo giorno maciniamo 45 km., tale è la voglia di immergersi nelle catene di iceberg che, posti lateralmente, formano un corridoio centrale in cui ci infiliamo. Nei primi tre giorni accumuliamo oltre 100 km. di navigazione, in un clima di silenzio surreale interrotto solamente dalle nostre pagaie che affondano, per poi riemergere in superficie, dai tuffi di un paio di enormi orche e dal distaccamento improvviso di qualche massa di ghiaccio. Nei giorni successivi la navigazione è resa complicata dal cambiamento della marea. Ogni mattina è come lanciare un dado: non sappiamo quale imprevisto ci riservi la giornata. La prima volta restiamo bloccati in un fiordo ghiacciato, dopo esserci districati tra un labirinto di iceberg; nella seconda, per poco non restiamo intrappolati da una banchisa che si era formata improvvisamente. Quando la temperatura si alza e i ghiacci superficiali si sciolgono, le onde si alzano fino a 3 m., spingendoci verso gli alti fiordi della costa. In momenti come questi, il pensiero di mettere le mani sulla roccia non ci sfiora nemmeno. Siamo noi quattro, umani, intenti a comprendere e ad adattarci alle regole imposte dall'immensità dell'oceano.
Al settimo giorno di navigazione, quando abbiamo già percorso oltre 200 dei 300 km. previsti, una terribile tempesta si abbatte su di noi, costrigendoci al naufragio nei pressi di un vecchio insediamento vichingo. Qualcosa di simile l'avevo visto solamente in Patagonia: venti a oltre 100 km/h, rocce frantumate che volano sopra le nostre teste. In totale la tempesta è proseguita per oltre sessanta ore, strappando le nostre tende e facendoci dubitare di non riuscire addirittura a sopravvivere! Così come Ulisse, vittima di una terribile tempesta scatenata da Poseidone, anche noi siamo stati colpiti dall'ira del dio dei mari. Stiamo vivendo una vera e propria Odissea!
Nel terzo giorno le acque si calmano. Decidiamo quindi di ricominciare a pagaiare senza sosta, per recuperare il ritardo accumulato rispetto alla tabella di marcia. Quando tutto sembra finalmente filare liscio, rimaniamo bloccati da una seconda tempesta. Questa volta è più breve, ma ricordo anche più intensa. E' un momento difficile a livello emotivo. Aspettare troppi giorni significa togliere giornate preziose ai tentativi sulla nuova via, e di conseguenza tornare a casa a mani vuote. I metereologi con cui ci siamo consultati prima della partenza ci hanno parlato di precipitazioni scarse e temperature in rialzo nel mese di agosto nell'area subartica. Non è esattamente quello che ci aspettavamo. Dopo aver valutato con attenzione i rischi per la nostra sicurezza, decidiamo di proseguire. Finalmente meteo e fortuna sembrano essere davvero dalla nostra parte. Al decimo giorno di navigazione raggiungiamo il nostro obiettivo, la nostra Itaca: il fiordo di Skoldungen.
LA TEMPESTA DI ZEUS, I VENTI DI EOLO
Il fiordo di Skoldungen è un'oasi artica. Il clima mite di quest'area offre una vegetazione lussureggiante, impreziosita da ruscelli e fiumi limpidi. Attorno, splendide valli aperte e montagne che superano i 2000: un idillio da cartolina. Questo paesaggio mozzafiato fa però da sfondo a un terreno avverso. Negli agli anni 70', l'unico insediamento di una comunità Inuit presente nell'area viene smantellato da un provvedimento governativo. Le condizioni proibitive rendono infatti impossibili approvvigionamento e sussistenza per gli abitanti. Nel 2015, l'avventuriero Mike Libecki completa la prima salita di alcune vie che si stagliano nella zona ma, rimasto bloccato dall'ice pack, non ha a disposizione tempo sufficiente per effettuare tentativi sul Droneren.
Finalmente eccola lì, proprio di fronte a noi, a dieci anni dall'ultima visita ricevuta. La nord-ovest del Droneren si slancia fino a 1980 m., inviolata e abbagliata da un sole caldo, che nutre ulteriormente le nostre ambizioni. Alla vista della parete, la razionalità che ci siamo imposti viene sopraffatta per un momento dall'euforia. L'avvicinamento non è dei più semplici, e inoltre dobbiamo misurare le risorse a disposizione: la tempesta ne ha prosciugate più del dovuto. Dopo qualche ora di riposo, infiliamo in spalla il nostro materiale e partiamo.
Risaliamo il fondovalle, poi ci arrampichiamo su morene e campi di firn, fino a superare il ghiacciaio che si trova immediatamente sotto la parete. Poco dopo esserci sistemati, un enorme masso si stacca dalla zona occidentale, schiantandosi in modo spettacolare ai piedi della parete. Interpretiamo questo benvenuto decidendo di rimanere sul pilastro centrale, la parte più esposta. La mattina successiva individuo una linea che taglia fedelmente in verticale quella colonna. Il punto di partenza è stabilito, non rimane che incrociare le dita, sperando in una finestra di bel tempo. In realtà sappiamo di non avere molte chance di scalare nei prossimi giorni. Approfittando dell'ultima giornata di bel tempo, Matteo e Symon riescono ad aprire la prima parte della parete, attrezzandola con alcune corde fisse. Dopo due giorni di maltempo, io e Alex abbiamo l'onore di proseguire. Inseriamo quattro pecker poco profondi nel passaggio più complicato della via (7b), laddove le fessure erano sparite. Non il più difficile, ma uno dei tiri più estetici che abbia mai attrezzato in vita mia.
La seconda finestra di maltempo ci permette di metabolizzare quanto concluso finora. Mentre attendiamo che il cielo si pulisca, conosciamo un gruppo di visitatori da crociera che, incuriositi, sono venuti a trovarci al campo base, offrendoci una cassa di birra. Il tempo a nostra disposizione sta però per terminare: rimangono solamente cinque giorni per chiudere il progetto. Il terzo tentativo non inizia nemmeno. Nella notte cade parecchia neve sulla cima, e anche sulla parete si formano delle lastre di ghiaccio. Nel quarto tentativo si scatena invece un Piteraq improvviso, che fa rotolare verso di noi decine di rocce. Una di queste taglia di netto la corda su cui sta salendo Symon. Fortunatamente non ci sono conseguenze per lui, è ancora assicurato. Le tempeste cadute nel corso di tutta la spedizione e gli effetti distruttivi delle bufere di vento mi ricordano il passo dell'Odissea in cui i compagni dell'eroe greco aprono l'otre in cui Eolo aveva racchiuso i venti, scatenando l'ira degli elementi. Abbiamo la sensazione che gli dei del cielo non vogliano permetterci di portare a termine il nostro obiettivo dell'intera stagione alpinisitca.
Per l'ennesima volta battiamo in ritirata verso il campo base. In poche ore il nostro umore è sceso a terra, così come le chance di successo. Ci troviamo ora di fronte a una decisione che avevamo messo in conto prima di partire, ma che avrebbe inevitabilmente rovinato in parte la spedizione. Rientrare immediatamente a Tasillaq o concederci un'ultima salita, e poi farci recuperare in pieno oceano visto lo scarso tempo a disposizione per tornare a Tasillaq? Deliberiamo per la seconda opzione, pronti a giocarci il tutto per tutto nell'ultimo tentativo.
IL RIENTRO A ITACA
Con il quinto tentativo facciamo "all in". Rimangono solo tre giornate per salire in cima al Droneren. Per l'esattezza, due giorni per liberare i nuovi tiri (quasi 500 dei 1200 metri di sviluppo totali) e un giorno intero per chiudere la via, scendendo in doppia in totale sicurezza. Ora il cielo sembra essersi finalmente calmato. Symon e Matteo avanzano velocemente sulla superficie vergine, mentre io e Alex trasportiamo le due portaledge gonfiabili e il resto delle corde. Sulla parete ci muoviamo come una vera squadra, caricandoci l'un l'altro. In quella giornata mettiamo mano alla roccia e diamo sostanza ai nostri sogni. Finora non ci siamo mai spinti così in alto. Addormentarsi sotto le stelle, che finalmente sembrano allinearsi, è un'emozione indescrivibile, accompagnata da quella sensazione di eccitazione che precede qualcosa di grande.
Il giorno seguente tocca a me e Alex condurre le operazioni. La neve dei giorni precedenti ha attecchito nella parte finale, creando un tratto di misto a dir poco insidioso. Grazie alla resistenza di Alex, superiamo anche gli ultimi tiri (35 in totale), lasciando le rocce sotto di noi. Senza quasi accorgercene, grande è la smania di raggiungere il punto più alto, superiamo l'ampia calotta di ghiaccio e, con un grido liberatorio da togliere completamente la voce in gola, urliamo la nostra gioia. Cima del Droneren! Neanche a dirlo, la vista da lassù è qualcosa che rimane impressa a vita. Dalla calotta glaciale della Groenlandia alle imponenti montagne e, per finire, l'Oceano Artico. Lo sguardo continua a vagare, smarrito, senza riuscire a fermarsi. A detta di Matteo, un quadro degno degli orizzonti che solo il Cerro Torre sa regalare. Iniziamo a calarci sotto le ultime luci del giorno, facendo rientro al bivacco. Il corpo non ne vuole sapere di riposarsi, la scarica di adrenalina prosegue ancora per diverse ore. A conclusione della giornata, l'inconfondibile onda verde dell'aurora boreale dipinge il cielo sopra di noi. In poche ore il fallimento si trasforma in un clamoroso successo, a cui partecipa anche la natura: un'esperienza di vita indimenticabile. Il battesimo della nostra via è presto fatto: "Odissea Borealis"!
La spedizione non può però dirsi conclusa senza il nostro rientro a Itaca. Una volta tornati vittoriosi al campo base, veniamo a sapere che non è possibile rientrare direttamente da Skoldungen. Dobbiamo remare per altri tre o quattro giorni, coprendo almeno metà della distanza che ci separa da Tasillaq. Mentre prepariamo i nostri kayak, un orso polare si avvicina a poche decine di metri da noi. E' tanto possente quanto intenzionato a fare la nostra conoscenza, ma il nostro interesse non è corrisposto. Sparo un paio di colpi in aria per farlo allontanare. Il terzo sortisce l'effetto sperato. Gli ultimi giorni di navigazione procedono lisci. Il movimento ondoso delle acque accompagna dolcemente la nostra flotta di kayak.
Procedendo verso nord, l'intensità dei venti diminuisce, e iniziamo a scorgere i fiordi del mare di Irminger. Le nostre "colonne d'Ercole" del mondo conosciuto. Durante la notte organizziamo dei turni di guardia, temendo di imbatterci in uno degli orsi polari incontrati fino ad allora (quello visto vicino al campo base della parete non è stato l'unico). Dopo vari tentativi, al trentaduesimo giorno di spedizione, qualcuno viene a recuperarci. La nostra Odissea nell'estremo nord termina qui, ma sopravvive in questo racconto e nelle nostre vite!